Le storie

ASSUNTA AI PIANI ALTI

Le piace stare in alto, come i gatti. Fa la doccia con gli occhiali da sole, li tiene incollati al volto per tutto il tempo, mentre l’acqua le bagna il viso e le gocce impertinenti le colano dal turbante che avvolge i suoi capelli corti e scuri. Assunta è originaria del sud Italia, una tipa strana, arrivata da poco all’Arcobaleno, nel reparto femminile dell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere. Non è una novità che sia entrata una nuova paziente.
Ultimamente le pazienti sono passate da 85 a 95, in pochi mesi. Il reparto è in evidenti condizioni di sovraffollamento: pensato per 60 posti letto, adesso ne accoglie oltre trenta in più. E non ho dubbio che stiamo viaggiando spediti verso quota cento (aggiornamento a gennaio 2014, ndr).
Dopo la doccia Assunta, con gli occhiali scuri sempre sul naso, si è asciugata con un lenzuolo e ricoperta con un altro. Si muove distrattamente con quel fardello addosso, strascicando i piedi in giro per la camera. Dove una volta c’erano due letti e ora ce ne stanno il doppio. Pochi metri quadri da dividere con altre regioni d’Italia.
Io entro per controllare che tutto sia a posto, come faccio con le altre stanze, ma non vedo lei. Il suo letto è vuoto, disfatto, e le compagne incredule. Si guardano, poi una simultanea occhiata per aria. Nel giro di poco, Assunta ha accumulato le sue poche cose e si è spostata con tutto, lenzuola e coperte addosso, sopra l’armadio.
«A me piacciono i piani alti», si difende. Forse si sente più tranquilla, lassù, forse domina la camera e può tenere d’occhio le compagne, che ancora non conosce bene. E io: «Ma Assunta devi scendere, il medico si arrabbierà. È vietato dormire fuori dal proprio letto; e se nel sonno poi cadi e ti fai male?»
Anita (oss) all'Arcobaleno, foto di Luciano Perbellini
L’ho lasciata per un attimo al suo giaciglio malmesso. Ho chiesto aiuto a una collega e poi sono tornata per farla scendere da là con tutto il suo arsenale di vestiti, lenzuola, cuscino e coperte.
A posto, finalmente tutto tace. Tempo mezzora e torno a controllare, si sa mai. La quiete dura poco, ahimè: la paziente è già sparita di nuovo. Il materasso deserto, le ante dell’armadio spalancate. Stavolta dove si è andata a cacciare? Dentro l’armadio, mi pare ovvio: nel letto non si può dormire…. È troppo banale! Sai che noia?! Infagottata come un cucciolo infreddolito e indifeso si confonde dentro le sue lenzuola, col cuscino stretto fra le braccia e la coperta sul volto. Assunta finge di dormire. O forse riposa sul serio. Chi lo sa.
Nessuno la disturberà più. Tutt’al più se cadrà, finirà col sedere per terra e, con una manciata di centimetri di dislivello e tutti gli stracci che ha addosso, non corre certo il rischio di farsi male.
D’altronde Assunta è appena arrivata, e stravolgerla troppo, soffocarla con una sfilza di divieti e regole a cui sottostare, non gioverebbe né a lei né alla serenità delle altre compagne di stanza e di reparto.

Un appunto mentale (per me): tanta pazienza, una bella scorta da tenere in tasca. La cosa più dura però, per me operatrice in turno, è la fase successiva: andare dal medico e barattare con lui il permesso di lasciare dormire la nuova arrivata nell’armadio. Come non è facile giustificare al dottore il fatto che Assunta decida di fare la doccia con gli occhiali da sole e un asciugamano in testa messo di trasverso a mo’ di turbante. La storia ha del ridicolo, a leggerla così, lo so bene. Ma sono cose che capitano all’Opg e ogni vicenda che accade nel fine settimana va relazionata allo psichiatra il lunedì mattina, perché sappia in che stato si trova la sua assistita e come procede il reparto. 

Ci sono notti straordinarie, fuori da ogni più vaga idea di normalità, come questa di cui Assunta è stata protagonista. Chi è in turno deve mantenere la massima calma e tendere all’improvvisazione anche… e mai abbassare la guardia con nessuna delle 95 pazienti. Imporre il regolamento però diventa ogni giorno più difficile, a ogni nuova arrivata c’è una regola che scricchiola e noi perdiamo posizione. Non cambia il numero di operatori in turno, questo no. Siamo sempre gli stessi e con le stesse forze, ma con il doppio del lavoro e più responsabilità. Concedetemi un’ultima riflessione. Se per una che dorme nell’armadio ce ne sono altre tre che riposano pacifiche nel loro letto, allora vale la pena di chiudere un occhio. È un buon compromesso, mi pare.


PRIMO GIORNO

Primo giorno di lavoro per Anita: un paziente ciondola in giardino con le braccia appese alle sbarre. Il suo sguardo si stringe e squadra la nuova arrivata che si dirige verso l'entrata. Come se da ore la stesse aspettando. Sporge il suo viso rugoso oltre le inferiate che circondano la struttura e  spara contro di lei: Anita in quel momento sta varcando la soglia del cancello per prendere servizio. 
«Sei nuova qui, vero?!» domanda il tizio senza timore. L’operatrice saluta e risponde con un cenno della testa. “Allora – continua lui con espressione serio, senza mollare l'occhio dalla sua preda – guarda bene quel cartello con la scritta Ospedale psichiatrico giudiziario. Ecco, ricordati bene: il cartello è appeso fuori dal cancello, non dentro».  
Anita al momento rimane perplessa. Passa oltre e saluta. Preso servizio all’Arcobaleno, racconta l’episodio ai nuovi colleghi. In effetti il cartello sta fuori... come a dire che i matti veri non sono quelli dentro!


MI SENTO CAMBIATA


Siamo in piena estate, la gente è in vacanza e io lavoro. Eppure sono contenta. Sono così felice di avere loro, le pazienti dell’Arcobaleno, che neanche penso alla mia vita. Le ho imparate a conoscere e sono diventate le mie “anime perse”. Riesco ad accettare il mio lavoro e mi sento meno vulnerabile, perché loro mi danno forza. Mi sento fortunata perché ho un lavoro che mi consente di non pensare troppo a me stessa, di ricevere affetto in cambio di assistenza, di sentirmi utile nell’aiutare il prossimo.
È sera e mentre guardo la finestra che fa a rettangoli il giardino, da dietro mi sento sfiorare e due bacini delicati si posano sul mio collo. Mi giro di colpo, senza celare lo stato d’allarme, un sospetto istintivo. Poi la sorpresa: chi mi trovo davanti? 
Seppì, la più pazza delle nostre ospiti. La più sporca e aggressiva, a volte persino violenta, ma anche la più dolce e infantile, la più vulnerabile e dipendente da noi… perché sta sempre “a murì de fame!”
Reparto Arcobaleno, foto di Luciano Perbellini
Come si fa a non volere bene a un personaggio del genere? Ha questi momenti in cui manifesta il suo affetto, forse se ne rende conto anche lei ed esce per qualche istante dal suo delirio, prende una pausa da quel suo mondo fatto di ombre, luci, equilibri sottili e fantasmi. Quando si lascia andare a una tenerezza, io mi commuovo. 
Mi chiedo perché. Mi domando se non sia possibile fare di più per lei, per le altre pazienti…
A volte, sembrano ribaltarsi i ruoli e io mi chiedo se siano loro ad avere bisogno di me o se sono io ad avere più bisogno di loro. La risposta mi esce spontanea, nasce da dentro: sono io che ho bisogno di ricevere amore, come solo loro sanno donare. Queste donne mi aiutano a vivere, mi fanno capire quanto sono fortunata ad avere tutto ciò che ho. E io ricambio questo loro dono, anche se devo stare nei limiti, anche se le regole un po’ mi soffocano e a volte mi verrebbe di oltrepassare i paletti. Mi rendo conto che non posso, proprio perché tengo molto al mio lavoro. 
Stare con loro fa bene alla mia vita. Può sembrare un pensiero egoistico, ma ero morta dentro e ora mi sento più viva. Mi sento cambiata e faccio tesoro di quello che ho imparato e conosciuto qui.
Dalia, operatrice sociosanitaria



LA RIVOLTA

Quella volta erano decise a sfondare la linea nemica. Si sono messe in gruppo, sapevano di non avere nulla da perdere. Sono entrate con i loro volti minacciosi per portare la rivolta dentro la guardiola. Avanzavano schierate facendosi forza a vicenda.
Una di loro, sieropositiva, teneva un pezzo di vetro in mano e lo brandiva come un’arma affilata contro gli operatori in turno. A un tratto, con risolutezza provocatoria si è graffiata il braccio e il suo sguardo freddo di sfida ha incrociato quello della collega. Un fulmine: «Se non mi dai le chiavi, ti sfregio con questo e con il mio sangue!»
Fotografia di Stefano Schirato
L’operatrice, presa dal panico, ha lasciato cadere il mazzo di chiavi. Non c’era da opporsi, non c’era altra scelta. Tanto non sarebbero andate lontane! Dare le chiavi è stato un gesto quasi spontaneo, per salvare la pelle: gli operatori erano pochissimi, loro di più. Con quell’atto le pazienti reclamavano la libertà, hanno preso il largo cominciando ad aprire una, due, tre serrature fino a che, a un certo punto, si sono ritrovate bloccate dinanzi a una delle tante porte.
Riuscire ad evadere dall’Opg non è banale. In quella circostanza per i colleghi operatori non era il caso di fare gli eroi a rischio della propria vita.
Non siamo nemmeno assicurati per questo!
Ci sono momenti in cui è meglio lasciar perdere e assecondare. E questo episodio rientra fra quelli. Se fosse stata una sola paziente contro di noi, avrebbe ceduto lei per prima, timorosa di finire magari in contenzione o di vedersi sospendere tutte le attività e i permessi per un po’. Resta comunque il fatto che non basta riuscire ad aprire una o due porte per guadagnare la via della salvezza. Le soglie da varcare sono tante e le chiavi altrettanto. Ci sono varie postazioni con colleghi addetti al controllo delle pazienti e per lasciare l’Opg bisogna riuscire a passare tutti i blocchi.


ROSA NON MENTE


Rosa non mente, è solo confusa. Rosa non ci pensa due volte quando deve decidere a che pagina aprire il suo librone e resettare la sua vita. Passeggia lungo il corridoio fino a quando stabilisce di fare una sosta in guardiola, per venire a trovare noi operatori e raccontarci chi è lei “veramente”. 
Bussa, spalanca con un colpo la porta, entra sicura e punta dritta al tavolo.
«Datemi pure del tu, non mi offendo», apostrofa seria mentre sposta la sedia e appoggia la sua nutrita enciclopedia sul ripiano dirimpetto al collega. Con inscenata serietà, e tono quasi credibile, apre il suo libro alla pagina giusta. Non lo sfoglia, lo spalanca proprio. C'infila l'indice in mezzo e si butta su una pagina precisa, proprio quella che per lei racchiude la sua identità. 
La ringhiera immaginaria su cui cammina in bilico la testa di Rosa separa il suo mondo dal nostro. La voce stridula attira la mia attenzione e mi penetra dentro. Mi chiedo come faccia. 
Se l’enciclopedia decide di premiarla, allora oggi lei è la regina d’Inghilterra e per le cinque in punto pretende il suo tè caldo. 
Disegno di una paziente dell'Opg
Se invece la giornata va storta, alla peggio sarà una sacerdotessa di chissà quale religione orientale e se il meteo le consentirà di partire potrà prendere il suo volo per raggiungere il popolo e annunciare la salvezza. Se qualcuno la accompagnerà gentilmente all’aeroporto, se le preghiere basteranno a farla atterrare nel paese giusto, se arriverà in tempo per il bagno di folla... Se, se… Le circostanze possono essere le più varie, lei ne è convinta quando guarda la sua enciclopedia, una consolazione per lei che racchiude tutto il suo mondo.
«Questa è la mappa del mio Paese e – indica l’immagine accompagnando il movimento del suo indice in carne con un’intonazione aspra e strozzata – i miei cari sono certa mi stanno cercando, non posso restare qui ancora per molto. Non ho più tempo da perdere, devo andare!»
Rosa non mente, ne è convinta davvero. Segna la pagina con tutta la mano adesso, fissa il pellegrinaggio mentale su un paio di foto e una cartina. S'agita nel chiedere le sue cose e una valigia. Se è il giorno della Zarina di Russia, pretende che uno di noi vada a cercarle pure la pelliccia e il copricapo reale. Anche d’estate Rosa non può farne a meno, d'altronde "deve partire"...
 «Domani torno in Russia e avrò freddo con questo vestito leggero».
Distoglie per un attimo i suoi occhi dal libro e il collega infermiere ne approfitta per spezzare l’incantesimo. «Le hanno rubato la pelliccia Zarina di Russia, sono giorni che non la troviamo più. Ci sarebbe però da bere questa pozione, forse con questa tornerà il caldo nel suo Paese e non avrà più bisogno di impellicciarsi». Rosa lo studia perplessa, si ritrae un attimo, afferra in fretta e furia il suo librone e, col capo chino, abbandona la guardiola. Indignata borbotta alle nostre spalle: «Non si tratta così una regina».
Questa paziente non è proprio mingherlina, diciamo che appartiene piuttosto ai pesi massimi. Ha una voce stridula, così acuta che ti s’incunea dentro; è anche l’unica che si alza in tarda mattinata e non lascia la camera prima delle 15. Non mangia né prende la terapia, evita qualunque forma di attività motoria fino a quell’ora perché non è assolutamente in grado di reggere. Non ha ambizioni né interessi se non per la sua enciclopedia.
La malattia l’ha trasfigurata. Rosa è come stordita, non reagisce ad alcuno stimolo, a meno che non si arrabbi di punto in bianco. Allora esplode come un vulcano e la sua forza tracima incontrollata. In quel caso i suoi occhi incandescenti, le guance gonfie e rosse e le labbra tirate non mentono: annunciano proprio una brutta tempesta. 


IL GAZZETTINO DEL REPARTO


È la stessa storia quasi ogni giorno. E questo pomeriggio tiene banco l’intervento mediatore della cara Sbirulina. Ma una cosa è certa: il lieto o il più aspro fine dipende molto dall’umore delle ragazze, ma altrettanto da quello di noi operatori.
Non sempre e non tutti siamo abbastanza “bravi” da riuscire a mantenere l’equilibrio, riportare l’ordine e la serenità in circostanze delicate. Nel ventaglio di tutte le possibili azioni, occorre scegliere subito i gesti più sensati e adatti a mantenere “in pari” la bilancia del reparto.
Sbirulina è qui da circa vent’anni. Tra qualche insuccesso in comunità e molti bocconi amari, legati al suo difficile temperamento e a circostanze esterne a lei, alla fine è approdata nell’unico posto dove, come ripete ogni tre per due, si sente a casa. Una vera fortuna, per lei!
Oggi non è più una ragazzina, come quando era arrivata. È una donna. Quarant’anni e metà vita trascorsa in maniera burrascosa, oscillando tra un posto e l’altro. Più di metà della sua esistenza si è consumata in questo ospedale. Senza la libertà di decidere se passare una serata al cinema o un pomeriggio a fare shopping con le amiche.
Foto di Stefano Schirato
Da giovane ha ucciso la nonna e da lì è iniziato il suo calvario nell’Ospedale psichiatrico giudiziario. Ha fatto di tutto per cercare di arrestare lo scorrere farraginoso della sua vita. Ha inghiottito pile e aghi, ha provato a darsi fuoco un’infinità di volte... ma per fortuna
o sfortuna sua è sempre sopravvissuta ai più disparati tentativi di suicidio, perché – a quanto pare – non era la sua ora.
Una sete implacabile di attenzioni è dentro di lei. Cerca costantemente di catturare lo sguardo e le orecchie delle compagne e, soprattutto, del personale. Questa è la sua vera passione: essere al centro della scena. Quando un’operatrice viene aggredita da qualche paziente, lei si precipita per cercare di proteggerla, si para davanti e fa da scudo con il suo corpo, respinge indietro la compagna e abbraccia la sua protetta. Credo si senta un’eroina in questi casi. Non ha paura di niente.
Il suo bisogno di attenzioni è anche fisico, quasi morboso. Ogni piccola carezza, un abbraccio, un bacio sono per lei tesori preziosi.
Ne è avida. Porge la guancia, penzola verso di me. I suoi occhi si illuminano quando le dico: «Come sei bella oggi, Sbiru» spalanca la bocca e poi mi bacia felice.

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